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Cosplay: un fenomeno grassroots

Il termine Cosplay, derivato dalla contrazione delle parole inglesi “costume” e “play” (ossia “gioco del costume”), identifica sia l’azione del travestirsi – “fare cosplay” –, sia il costume stesso –“essere in cosplay”. Il cosplay è quindi la pratica di travestirsi da personaggi di fumetti (per lo più manga giapponesi), serie animate o videogiochi, durante particolari eventi. Questi si tengono nelle fiere del fumetto, dette anche mostre-mercato o convention, in cui negozianti, distributori e appassionati del settore espongono e vendono i loro prodotti e in cui si tengono anche iniziative culturali come mostre e conferenze.

 

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 I cosplayers si comportano come pubblico, nel senso che girano per gli stand e assistono alle conferenze, ma sono chiamati anche a partecipare ad iniziative specifiche, come ad esempio un concorso, in cui sfilano ed interpretano il proprio personaggio, da soli o in gruppo, davanti ad una giuria che stabilisce il miglior cosplayer. I parametri di valutazione sono: la somiglianza del costume e l’interpretazione, che può essere totale o parziale. L’interpretazione è parziale se è evidente solo nel momento della sfida, sul palco davanti alla giuria; è invece totale se il cosplayer riesce ad assumere il modo di fare del personaggio e portarlo avanti anche fuori del palco, durante tutta la durata del giorno.

All’origine del cosplay c’è una generazione di Otaku, appassionati di fumetti, serie Tv e videogiochi giapponesi, che si identificano con i loro eroi e ne assumono l’aspetto. Sono le seconde o forse terze generazioni svezzate dai cartoni animati giapponesi, i più famosi dei quali appartengono all’infanzia dei loro fratelli maggiori, se non dei loro genitori; hanno visto in successive repliche i classici Lady Oscar, i Cavalieri dello Zodiaco o Sailor Moon. Per loro quindi il modello da imitare costituisce un mito sotto forma di una ripetizione nel tempo.

Il fenomeno nasce in Giappone agli inizi degli anni ‘80 e si diffonde abbastanza rapidamente in Europa e in America tanto da arrivare a coinvolgere migliaia di persone. Ormai ogni fiera del fumetto ospita, nei giorni di maggiore affluenza, una sfilata di cosplay. In Italia, la data assunta come rivelazione del fenomeno, risale al 1997, quando per la prima volta una sfilata è stata ospitata nella fiera “Lucca Comics & Games”, anche se si crede che la pratica fosse già esistente, con la differenza di non essere organizzata.

Il cosplay non è, come al principio si potrebbe credere, un mondo immaginario in cui rifugiarsi ma un vero e proprio fenomeno sociale che unisce giovani d’oriente ed occidente. Per questo motivo, il fenomeno ha catturato l’attenzione di sociologi, antropologi e studiosi di ogni genere, come il professor Speroni, la professoressa Valeriani, il professor Di Fratta e la professoressa Vaccari, presenti alla conferenza del 2 Ottobre alla fiera del fumetto di Roma, Romics 2008. Nel corso di questa conferenza, mi ha personalmente interessato l’intervento della professoressa Vaccari: essendo professoressa all’università di Bologna del corso di laurea specialistica in Sistemi e Comunicazione della Moda, la sua attenzione si è soffermata sulle particolarità del vestito-travestimento e sul suo significato. Nel cosplay, la regola principale può essere così enunciata: “maggiore è il contributo personale al vestito, più apprezzato è il cosplay”; questo significa che il costume deve essere realizzato a mano, personalmente, da parenti o amici, o al massimo, nel caso di un vestito troppo complicato, da un sarto.

Il vestito comprato non è ben visto nell’ambiente e fa guadagnare meno punti. La difficoltà principale sta proprio nel dover tradurre nella realtà un vestito che non è stato progettato per essere realmente indossato: i disegnatori non si sono preoccupati del fatto che questo non rispondesse a logiche essenziali della sartoria e della moda, o più semplicemente della fisica, quindi i vestiti saranno pesantissimi, con pieghe o ornamenti impossibili, in generale difficilissimi da creare e indossare. L’abilità sta quindi nel reinterpretare il vestito stesso in modo che funzioni nella realtà. È qui che entra in gioco il vero e proprio mercato del cosplay, che può essere associato al pensiero di Fiske delle economie culturali ombra: questo fenomeno alimenta, infatti, sia il mercato globale, con i fumetti e l’oggettistica necessaria, sia un mercato interno alla comunità che favorisce e rafforza l’identità sociale del gruppo. Anche per la difficoltà di creazione dell’abito si sono creati nel tempo comunità virtuali, siti web o riviste specializzate, in cui i cosplayers si scambiano consigli sartoriali ma anche foto delle proprie interpretazioni, e quindi dei propri vestiti, unitamente con informazioni generali sul mondo del cosplay.

Proprio per il fatto che il cosplay non può essere considerato solo una moda passeggera ma si è espanso in poco tempo in tutto il mondo, i sociologi tendono a definirlo un fenomeno grassroots: un fenomeno quindi che nasce dal basso e si estende orizzontalmente nella società. Il cosplay è quindi una messa in scena di un abbigliamento utopico teso a dare forma concreta ai personaggi disegnati e come gioco di ruolo che coinvolge i concetti di identità, genere e transcultura.

di Camilla Sansonetti

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