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Le origini del fenomeno Cosplay

Il cosplay è un fenomeno globale senza precedenti di cui è difficilissimo tracciare la sua storia. Probabilmente, il fenomeno che può essere considerato come antesignano di questo movimento artistico/mediale nasce non in Giappone, come si potrebbe pensare ma negli States nel lontano 1939 con il futuristico costume creato da Myrtle R. Douglas (in arte Morojo) e Forest J. Ackerman ispirandosi alla pellicola “La vita futura” di William Cameron Menzies durante la World Science Fiction Convention.

Morojo, also known as *the* inventor of cosplay, rarely gets the credit she deserves https://t.co/wgU9Lgtt9L pic.twitter.com/1rpaNFpEZh

— Racked (@Racked) 9 maggio 2016

Successivamente, negli anni ’70, sempre in America, il fenomeno del “vestirsi come i propri beniamini” si cominciò a diffondere tra gli appassionati di fantascienza, in particolare nelle prime convention di Star Trek e, successivamente con i fan di Star Wars (dando origine al fenomeno parallelo del costuming).

Sul finire degli anni’ 70, ecco finalmente reperibili le prime informazioni su questo fenomeno nascente nel Sol Levante: l’episodio che da vita al fenomeno di “appasionati in costume” nipponici si ritiene nasca dopo le prime puntante trasmesse di “Gundam”. I fan degli eroi della serie televisiva di Yoshiyuki Tomino. si diedero appuntamento davanti la stazione di Shinjuku, con i costumi dei personaggi dell’anime. L’iniziativa fu fondamentale per la storia di questa passione: era la prima volta che un gruppo, fino a quel momento silenzioso di fan “più creativi degli altri”, grazie alla presenza di molti giornalisti intervenuti al raduno, ebbe una visibilità sociale. La dichiarazione che uno di loro rilasciò ai giornalisti rimase storica: «io, Shia Aznable, in qualità di rappresentante di tutti i fan di Gundam dell’intero Giappone, dichiaro che oggi inizia la nuova era dell’animazione». In questa affermazione c’è già uno dei criteri di base di quella che poi sarebbe stata la “filosofia cosplayer”: come avete letto, infatti, l’intervistato si autopresenta come Shia Aznable, ossia come uno dei protagonisti dell’anime. Questo fenomeno venne definito “kasou”, prima terminologia ufficiosa di questa “mania del vestirsi” che stava dilagando.

L’episodio più conosciuto legato al kasou avvenne invece nel 1981, durante la ventesima edizione del Comic Market di Tokyo, la più importante fiera internazionale di Manga e Anime: alcune ragazze hanno cominciato a girare vestite nei panni di  Lamù, la celeberrima eroina dello spazio protagonista di “Lum Uruseiyastura”. Non erano ancora “cosplayer”, termine che fu coniato, finalmente, solo tre anni più tardi dal reporter giapponese per descrivere ciò che aveva visto durante il suo viaggio negli States presso le convention statunitensi applicandola alla moda che già si stava diffondendo, senza nome, nel suo paese. La parola “cosplay” è la contrazione dei termini inglesi “Costume” e “Play”, traducibile come “gioco in Costume” ma anche “interpretazione di un personaggio”. Il verbo anglosassone “Play” vuol dire sia giocare che recitare, e la recitazione è l’aspetto fondamentale di questa arte che “si crea e si indossa”. Ma il vero “boom” internazionale si ebbe solo un decennio dopo, a metà degli anni ’90 grazie probabilmente alla fortunata serie Neon Genesis Evangelion.

Da quel momento, il fenomeno cosplay ha interessato una sempre più grande fascia di adolescenti e giovani adulti diventando in Giappone quasi un fenomeno di riscatto sociale o di contestazione. Emblematici sono i raduni con centinaia di partecipanti come quello che si svolge, tutt’ora, nel quartiere di Tokyo chiamato Harajuku ogni domenica, in cui non è più importante il personaggio interpretato ma piuttosto il costume “non convenzionale” che si sta indossando. Inoltre in tutto il Giappone si sono diffusi centinaia di negozi specializzati che vendono costumi, gadget e libri illustrati per perfezionare i propri costumi sempre più somiglianti agli originali, facendo tra l’altro cadere uno dei primi assiomi di questo fenomeno, ovvero che il costume deve essere rigorosamente “fatto a mano” in ogni suo dettaglio. Queste aziende hanno avuto successo planetario con la vendita online o presso strutture web organizzate negli scambi commerciali come il celeberrimo Ebay. Esistono inoltre 1600 riviste specializzate, molto costose e stampate in numero limitato ambite dai collezionisti. Il Fenomeno Cosplay in Giappone è stato abilmente sfruttato dalle stesse Aziende produttrici degli Anime e dei Videogiochi che i cosplayers prendono come ispirazione. E’ normale vedere alla presentazione dei Film d’animazione (OAV) o presso le fiere videoludiche (come il Tokyo Game Show) le stesse cosplayer assoldate come hostess dell’evento. Dall’amatoriale al professionismo il passo è dunque molto breve, un cosplayer si può definire “PRO” se diventata abbastanza famoso per diventare esso stesso un idolo per gli appassionati. La definitiva consacrazione al questa categoria successiva viene con la pubblicazione nella serie di carte da collezione “Costume Players: Trading Card Collection”, 93 soggetti per altrettante card destinati ad trovare il loro  posto nella mitologia del fenomeno entrando in una sorta di fanatismo mediatico tipico delle Star System classico.

Un fenomeno, quello del cosplay, di per se positivo, che è stato tacciato inizialmente in Occidente (immemore di averlo creato) di oltraggio al pudore e associato malamente a forme di prostituzione giovanili anche per via dell’esistenza di alcuni locali notturni di Tokyo che fanno indossare alle loro dipendenti costumi da cartone animato: un’associazione alquanto pericolosa e sicuramente inesatta. Questo particolare modo di utilizzare “il costume”, reso noto al grande pubblico in Italia nel 1999 dalla Trasmissione “Turisti per Caso”, è associabile al feticismo sessuale tipico del popolo giapponese in bilico tra un formalismo metodico e una sessualità mediatica esplicita ma paradossalmente non espressa. Non erano (e non sono=) cosplayer le avvenenti fanciulle che popolano questi locali ma piuttosto donne in costume, che sia da infermiera, da poliziotta o da cartone animato non è importante per il pubblico di queste serate.

I fruitori di questo movimento impiegano mesi per realizzare i propri costumi e per preparare i loro personaggi. Questa loro passione viene premiata nei vari Cosplay Contest delle più grandi Fiere Internazionali in cui sfilano e gareggiano per decretare i migliori costumi. Un lato inaspettato è l’agonismo generato da questi eventi, soprattutto se in palio per i vincitori ci sono dei riconoscimenti internazionali. Un agonismo che genera a volte situazioni di nervosismo esasperato, gelosia ed inaspettato arrivismo, che getta in  alcune situazione ombre su questo movimento famoso invece per la sua genuinità. Proprio grazie (o a colpa, dipende dal punto di vista), molti hanno ritenuto per anni il Giappone come “la patria natia” del Cosplay, in particolare per un celebre show televisivo, World Cosplay Summit, che è diventato il contest internazionale più noto in cui si sfidano i migliori cosplayer provenienti dalle più note fiere sparse nei cinque continenti.

Comunque, il fenomeno cosplay a metà degli anni 90
è uscito dal Giappone conquistando mercati internazionali rientrando dapprima negli Stati Uniti, per poi arrivare in Francia, Korea, Sud America, Taiwan, Germania, Inghilterra e dunque, a metà degli anni ’90, anche in Italia invadendo le fiere specializzate e gli indirizzi web di tutto il mondo… ma questa è un’altra storia!

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